In un primo momento la dipendente impugnava il proprio licenziamento di fronte al Tribunale di Brescia ed in seguito proponeva ricorso presso la Corte D’Appello della stessa sede, ma in entrambi i casi i Giudicanti pronunciatisi in merito alla vicenda, avevano ritenute valide e provate le ragioni del titolare dello studio.
In particolare, la Corte D’Appello di Brescia con sentenza n. 73/2013 aveva escluso la possibilità che il licenziamento fosse frutto di una ritorsione o di un atto discriminatorio, anche perché la stessa segretaria non aveva mai negato di aver utilizzato il proprio computer aziendale anche per accessi ad internet che esulavano le proprie mansioni d’ufficio nel corso dell’orario di lavoro.
In particolar modo, la signora aveva effettuato l’accesso al social network Facebook per circa 4500 volte in 18 mesi, con durata di navigazione molto spesso significativa, e poiché l’accesso in particolare a quel tipo di social è consentito soltanto mediante credenziali personali (Nome utente e password), non vi era alcuna perplessità o dubbio a chi dovesse essere addebitata la titolarità dell’utilizzo.
Tutto ciò aveva allora avvalorato la testimonianza del datore di lavoro, che riteneva ormai incrinato il rapporto di lavoro con la propria dipendente, avendo questa compromesso la fiducia e l’etica comune, scegliendo pertanto la via del licenziamento.
Quindi, il caso passava al vaglio dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, e la ricorrente censurava la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, con due motivi di ricorso, a suo dire, la segretaria denunciava la violazione degl’artt. 414-416 c.p.c. per l’ammissione di verbali di un'altra causa, quando però i termini per la costituzione in giudizio di primo grado erano ormai superati, ed il secondo motivo per la questione annosa in riferimento alla cronologia del computer per la violazione privacy.
Gli Ermellini, con sentenza 3133/2019 rigettavano i due motivi di ricorso ribadendo nel primo caso, che in merito ai verbali di causa essi fossero ammessi come documenti successivi alla costituzione in giudizio di primo grado, in quanto documenti formatisi in epoca successiva rispetto alle preclusioni dello stesso giudizio e pertanto utilizzabili come prove atipiche, sotto un profilo formale, ma soprattutto tali documenti fossero ammissibili, anche sotto un aspetto procedurale.
Con il secondo motivo del ricorso, la Corte compie un passo significativo per l’ambito licenziamenti nell’era dei social, pur avendo la ricorrente sostenuto che la sua frequentazione in internet non poteva essere provata con il report della cronologia, in quanto lesiva privacy, e da sola non sufficiente ai fini della prova.
In effetti, sottolinea la Suprema Corte, il computer utilizzato dalla segretaria nel suo ufficio è un computer aziendale, e pertanto, il datore di lavoro che verifichi non la produttività della sua dipendente, ma le condotte estranee all’operato richiesto durante l’orario lavorativo, non sono condizione della violazione della privacy ma piuttosto un operoso e doveroso controllo che il titolare può effettuare sui dispositivi messi a disposizione per svolgere il reale lavoro.
Sulla base di tale assunto la ecc.ma Corte di Cassazione con la sentenza n°3133/2019, rigettava il ricorso della segretaria bresciana, apportando elementi significativi e nuovi circa la valutabilità del giusto utilizzo delle tecnologie messe a disposizione del dipendente per la mansione lavorativa.